Volendo parlare di Alessandro, che ora ha 22 anni, mi sono chiesta tantissime
volte da dove cominciare.
Certo, potrei cominciare dalla nascita, o meglio ancora dalla gravidanza, ma
mi porterebbe troppo lontano, mi farebbe rivivere tante situazioni che sono
state senza ombra di dubbio molto importanti e significative, ma al momento
attuale vengono offuscate da quelli che sono stati gli eventi degli ultimi 18
mesi. E sono questi che contano maggiormente, ora.
Avere un figlio Down in fondo è già qualcosa che ti distingue
dagli altri. E questo nel bene e nel male. In un primo momento ti fa crollare
addosso il mondo, poi pian piano ti fa scoprire cose sempre nuove, cose che
non avresti mai immaginato, ma soprattutto sveglia in te forze sempre nuove,
ti apre nuovi orizzonti, ti fa apprezzare le cose piccole della vita che diversamente
non avresti mai apprezzato. Non riesci più ad immaginare come sarebbe
la tua vita se quel cromosoma non si fosse permesso il lusso di presentarsi
più numeroso del necessario, anche se i pensieri e le preoccupazioni
continuano ad assillarti.
Ma se a questo evento straordinario un bel giorno un altro ospite indesiderato
si presenta alla tua porta, ti sembra davvero di dare i numeri. A me è
successo il 16 aprile dell'anno scorso, quando mio marito, dopo aver accompagnato
Alessandro a fare un'ecografia al testicolo destro, è tornato a
casa dicendo che, contrariamente a quanto un mese prima aveva diagnosticato
il nostro medico di base, non si trattava di idrocele o varicocele bensì
di qualcosa di molto più serio, che ci veniva confermato il giorno successivo
dall'urologo: era un tumore, un tumore maligno. L'urologo ci ha
tenuto subito a precisare che oggi il tumore testicolare è tra quelli
meglio curabili con la chemioterapia, se proprio la cosa fosse già avanzata
al punto da renderla necessaria. Ci parlò subito del ciclista americano
Armstrong che era stato colpito da questo male e che l'aveva superato
tanto bene da riuscire a vincere il Giro di Francia (Nei giorni successivi divorai
il suo libro!). Cercò con molto tatto di sdrammatizzare e ci procurò
nel giro di pochi giorni un posto in ospedale, per l'intervento. Prima
dell'intervento una TAC, che purtroppo ci fece capire che la cosa era
già molto avanzata: nel polmone destro c'erano macchie sospette,
erano metastasi. Era incredibile! Come poteva quello lassù permettere
una cosa del genere? Come poteva farci vivere anche questo di incubo? Come poteva
permettere che fosse ancora lui, il nostro Ale, l'essere più dolce
che abbiamo mai conosciuto, ad essere colpito? Come avrebbe fatto ad affrontare
tutto ciò che l'aspettava? Come avrebbe reagito all'intervento,
alla chemio ecc. ecc.? Il giorno dopo l'intervento al testicolo tornavamo
a casa, con il nostro piccolo grande "orsacchiotto" che non capiva
perché durante la TAC avesse sentito un caldo tale da provocargli il
vomito, perché svegliatosi dall'anestesia avesse vomitato ancora,
perché quando camminava sentisse forti dolori. Noi ci guardavamo disperati,
non sapevamo cosa dirgli, come dirgli qualcosa. Non sapevamo neppure cosa dire
a noi stessi, come farci coraggio, per trovare la forza di accompagnarlo nella
dura esperienza che ancora l'attendeva. I fratelli reagirono con grande
disperazione, la prima loro reazione: "Ma perché proprio lui? Non
ne aveva abbastanza?". Ci chiudemmo un po' tutti nel silenzio. Ognuno
con le sue domande scritte in faccia, ma pronto a lottare.
La cosa che più mi spaventava era vederlo soffrire. Lui che era sempre
stato così allegro, che non aveva mai avuto grandi pretese, lui che con
il suo sorriso sembrava ringraziarci quasi ogni giorno di averlo messo al mondo,
doveva affrontare qualcosa che non sapevamo neppure immaginare. Nella mia disperazione
formulai una preghiera. Se il buon Dio aveva deciso di togliercelo, allora lo
pregavo di fare in fretta, di evitargli lunghe sofferenze. Sarebbe stato troppo
crudele, altrimenti! E naturalmente sperai che il suo disegno fosse un altro!
Intanto che si aspettava l'esito istologico iniziava la lunga ricerca
in Internet, cercando risposte ai perché, informazioni, calcoli di probabilità
di sopravvivenza. La domanda più grande restava "Come reagisce
una persona con sindrome di Down ad una chemioterapia?". E poi tante altre.
"Avevamo dormito noi?". "Se il medico di base si fosse accorto
subito che era molto più che varicocele o idrocele, quel mese che è
trascorso tra la prima visita e l'ecografia avrebbe cambiato qualcosa?
E perché non sono stata più attenta? Io che di solito quando i
miei figli erano piccoli correvo dal medico appena percepivo che qualcosa non
andava, questa volta avevo reagito troppo tardi! Da mesi ci eravamo accorti
che c'era qualcosa che non andava, ci sembra strano. Troppo assorto nei
suoi pensieri, malinconico. Davamo la colpa all'inverno che sembrava non
finire mai, per cui aveva sempre un po' di tosse. In febbraio aveva fatto
persino una cura antibiotica e un anno prima una radiografia ai polmoni, che
non aveva destato alcun sospetto.
Aveva cominciato ad essere strano intorno a Natale. Eravamo in Germania, da
mia sorella. Ale parlava spesso e volentieri di quando era piccolo, di come
era bella la sua vita quando aveva otto anni, di come era bella la nostra vita
di famiglia quando abitavamo in appartamento a Colonia e che lui, quando sarebbe
rinato a nuova vita, voleva rifare esattamente quello che stava facendo ora
in questa. Volle rivedere (da fuori, perché era chiusa) la scuola elementare
che aveva frequentato, cominciò a parlare di persone che in quegli anni
lontani gli erano state care. Improvvisamente ricordava tantissimi episodi,
anche quelli che noi non ricordavamo più.
Forse il suo male era cominciato proprio in quel periodo. Non mi è mai
stato confermato dai medici. Ma io suppongo di sì. I medici mi hanno
detto soltanto che era una cosa di pochi mesi.
Arrivato l'esito istologico, ci recavamo subito da un oncologo, il quale
proponeva di iniziare la settimana successiva con il primo ciclo di chemioterapia,
in day hospital. Ma Alessandro avrebbe potuto affrontare un tale bombardamento
di veleni in day hospital? Saremmo stati in grado di capire come aiutarlo? E
se fosse stato molto male cosa avremmo potuto fare? Avrebbe permesso alle infermiere
di infilare la cannula nella vena per la flebo? Avrebbe sopportato la cannula
per ore ed ore?
Qualsiasi fonte consultassimo, la conclusione era una sola: ci volevano 3-4
cicli di Cisplatino/Etoposide/Bleomicina, non c'era scampo! Bisognava
quindi mettere da parte le domande, le remore e passare all'attacco, che
iniziava in 13 maggio. Alessandro si presentò al grande appuntamento
come se andasse a fare una passeggiata. Distribuì subito sorrisi a destra
e a manca, pregò l'infermiera di infilare la cannula "delicatamente"
e mentre scendevano le prime gocce dei killer che dovevano andare all'attacco
del suo male ascoltò un po' il suo discman, ma lo lasciò
perdere ben presto, preferì chiacchierare, raccontare, come è
solito fare (sembra infatti un libro aperto) tutto a tutti. Il pomeriggio, a
casa, era bianco come un cadavere, mi guardò e mi chiese: "Mamma,
ma cos'ho io?". Non ricordo neppure cosa gli risposi. Il primo fine
settimana fu il più terribile. Il sabato sera cominciò a vomitare,
a sudare freddo. Non riuscimmo ad aiutarlo e lo portammo all'ospedale
più vicino, che non era quello in cui faceva la chemioterapia. Non conoscevamo
nessuno, eravamo spaventati. Non fu una bella esperienza. Mi sembrava di leggere
nei volti delle persone: "Ma cosa volete, ha la sindrome di Down, adesso
anche il cancro, cosa vi aspettate?". Ci aspettavamo che qualcuno lo aiutasse,
gli facesse passare quel vomito maledetto che così tanto lo spaventava
e mandava completamente in tilt i suoi occhi colpiti dalla nascita da un forte
nistagmo. Ma era sabato notte, tutto andava a rilento. Il mattino dopo un'infermiera
entrò per dirmi di lavarlo. Le chiesi di darmi qualcosa per lavarlo,
io non avevo dietro nulla, eravamo lì da qualche ora, eravamo corsi in
ospedale senza prendere nulla. Sembrava scocciata, mi portò qualcosa
per lavarlo e andò via. Più tardi chiesi qualcosa contro il suo
mal di testa, ma il medico non c'era e non mi potevano dare nulla. Così
Ale dovette tenersi il mal di testa per qualche ora, finché il medico
iniziò il suo turno. Firmammo per portare a casa Ale e uscimmo dall'ospedale,
con il parere contrario del medico.
Ma per fortuna fu l'unica esperienza negativa.
La seconda e terza settimana furono molto più leggere: una flebo molto
più breve, soltanto il martedì.
Con la quarta settimana iniziava il secondo ciclo e ci venne il terrore del
fine settimana, quando Ale avrebbe accumulato l'effetto di 5 giorni di
3,5 ore di flebo al giorno. Ma eravamo un po' più pronti per affrontare
la situazione. L'oncologo ci aveva prescritto delle supposte, che gli
somministrammo due ore prima del previsto, quando notammo che cominciava ad
essere più irrequieto. Superata la notte critica tra il sabato della
domenica, era superato il rischio ricovero d'urgenza.
Perse tutti i capelli. Se li ritrovò sul cuscino, per terra, attaccati
alla spazzola, nel lavandino. Ci chiese perché. Non potevamo dirgli la
verità, temevamo che non accettasse più le flebo. Faceva molto
caldo, sudava tanto. Allora gli proponemmo di rasarli tutti, così poteva
meglio affrontare il caldo. Accettò, anche se molto a malincuore.
E così passarono 12 interminabili settimane. Ale non faceva che parlare
di quando sarebbe "guarito del tutto" e di programmare viaggi. Innanzitutto
voleva recarsi in Germania, da sua zia, e poi in Sudafrica a trovare un obiettore
di coscienza che quando frequentava le elementari a Colonia, in Germania (Ale
è nato in Germania ed è venuto in Italia all'età
di 13 anni), gli era stato molto simpatico. Nel frattempo in Germania c'è
stato già due volte, in Sudafrica ancora no.
In settembre venne sottoposto ad una PET. Il risultato fu un po' dubbio,
per cui in ottobre fu operato al polmone destro per asportare ciò che
era rimasto. Solo così si poteva sapere se la chemio aveva fatto effetto
o meno.
I medici non sembravano molto ottimisti.
Il risveglio dopo l'intervento al polmone fu un incubo. Ale continuava
a piegarsi su se stesso e ad urlare: aveva forti dolori. I primi due giorni
furono terribili. Per lui, oltre al dolore, la cosa più terribile era
che non gli dessero da mangiare. Implorò a tal punto che persino la somministrazione
dei pasti fu anticipata, senza alcun problema. Il secondo giorno dopo l'intervento,
nei momenti in cui i dolori non erano troppo forti, giocava ad Uno, ascoltava
la musica, chiacchierava. E ogni giorno che passava andava sempre meglio, tornava
ad essere il nostro Ale. Ma ancora mancava l'esito dell'esame istologico.
Esattamente una settimana dopo l'intervento Ale veniva mandato a casa.
Dal punto di visto chirurgico aveva superato tutto brillantemente. Mentre ci
stavamo preparando, entrò il medico. Mi guardò un po' incredulo.
Per la prima volta, dopo tanti mesi, vedevo un medico che mi voleva dire qualcosa
senza essere imbarazzato. Mi comunicò che era arrivato l'esito
dell'esame istologico e che era tutto necrotico.
Lanciai un urlo e lo abbracciai dalla gioia. Penso che non se lo aspettasse.
Non si aspettava né l'abbraccio né il fatto che tutto il
materiale analizzato fosse necrotico.
Fu un grande giorno. Fu un giorno in cui ci sembrava di toccare il cielo con
un dito. Mia sorella, che era venuta appositamente dalla Germania per stare
vicina a noi tutti in quel momento così difficile, fortunatamente non
era ancora ripartita, quindi poté partecipare, dopo aver partecipato
pienamente al nostro dolore, anche pienamente alla nostra gioia.
Erano passati sei mesi da quel brutto giorno d'aprile. Nel giro di sei
mesi abbiamo conosciuto momenti di estrema disperazione ma anche di estrema
gioia.
Ale capì benissimo che qualcosa di stupendo era successo. Pianse dall'emozione.
Da ottobre non facciamo che sperare nuovamente. Finora dai controlli effettuati
sembra che vada tutto per il meglio. Speriamo che sia così per moltissimo
tempo. Anche ai controlli Ale si presenta con estrema fiducia, non ha alcun
problema a fare la TAC. Anzi per lui è una grande giornata, passa sempre
a salutare lo staff del day hospital di oncologia. E lì grandi feste:
abbraccia tutte le infermiere con grande affetto. Le adora ancora adesso tutte.
Ha proprio un bellissimo ricordo di tutto quanto. Sì, sembra strano,
ma è così. Ha un ricordo bello perché ha conosciuto, oltre
alla sofferenza, anche persone splendide. Lui pensa ancora molto a tutti e continua
a ringraziarli per averlo aiutato. È stata un'esperienza che nel
dolore ha fatto nascere in lui la fiducia per la medicina. Ale non sa esattamente
cosa ha avuto. Conosce però perfettamente la sua storia, sa elencarne
tutte le tappe. E quando sa di qualcuno che si ammala, chiede: "Ma è
grave?". Se la risposta è negativa, è contentissimo e commenta:
"Meno male!". Ha sviluppato una sensibilità ancora superiore
a quella che già aveva. Ha imparato anche lui a vedere il mondo con altri
occhi, coglie i piccoli particolari che prima non coglieva. Come faccia con
la pessima vista che si ritrova (ha un residuo visivo di un decimo) non lo so.
So solo che è diventato molto attento soprattutto agli umori di coloro
che lo circondano. Ne coglie ogni cambiamento e si preoccupa. Bisogna sempre
rassicurarlo. Lui, che è sempre stato un pigrone, al mattino vuole andare
a fare la spesa con il suo papà. Naturalmente bisogna fermarsi al bar
a fare colazione! E in questa torrida estate 2003 spesso la sera chiede di uscire,
di andare a comperare un gelato.
Ma ha anche imparato a stare attento al suo peso. Ha decisamente qualche chilo
di troppo. Ogni tanto sostituisce un pasto con qualcosa di molto leggero per
non assumere troppe calorie.
Abbracciarlo è come abbracciare il mondo intero.
Due giorni fa ha avuto una seria discussione con suo padre. Ale sa che in questi
giorni ricorre il nostro anniversario di matrimonio. Ha imposto a suo padre
che quando rinasce a nuova vita dovrà risposarsi. Mio marito gli ha dato
la solita risposta. No, non si sarebbe risposato, non avrebbe rifatto lo stesso
"errore"! Ale si è arrabbiato. La sua risposta: "Ma
sei matto! Tu, caro mio, risposi la mamma II, altrimenti io come faccio a nascere
un'altra volta, a ritornare un bambino di otto anni e a rifare tutto?".
Mi è sembrato l'ennesimo inno alla vita!!!
Ora aspetta che andiamo in vacanza per una settimana, insieme alla zia. Poi
si prepara a tornare a scuola.
Prima che si ammalasse frequentava una scuola regionale di pasticceria. L'ultimo
anno scolastico lo ha frequentato praticamente solo a metà. Passata la
burrasca ci voleva tornare, ma non ha potuto. La scuola non ha potuto riprenderlo
perché c'erano stati dei tagli e doveva lasciare fuori chi l'aveva
frequentata per vari anni. Bisognava fare largo ai nuovi.
Comprensibilissimo. Ma come spiegarlo ad Ale? Aveva passato un periodo molto
difficile, voleva rivedere i compagni, gli insegnanti, voleva ritornare nel
posto che conosceva e in cui si sentiva sicuro. Ma non c'è stato
nulla fare. A nulla è servito fare presente alla preside che forse la
sua era una situazione particolare. Non poteva, dopo quello che aveva appena
passato, andare in un ambiente completamente nuovo, affrontare altre situazioni
completamente nuove! La preside ha ribadito il suo no. Se faceva eccezione per
lui doveva farla anche per esempio per l'altro ragazzo che era stato altrettanto
escluso dalla frequenza. Assurdo! Conosco la mamma dell'altro ragazzo,
non penso proprio che si sarebbe messa a fare storie perché ad Ale veniva
concessa la frequenza ed a suo figlio no. Ma è andata così. Ale
ha trascorso un intero anno quasi solo a casa, spesso davanti al suo adorato
computer a copiare e ricopiare ricette, che poi stampa e mi mostra con grande
orgoglio. Da gennaio a maggio è stato inserito per un giorno e mezzo
a settimana in una classe di orientamento professionale per portatori di handicap.
Si è trovato bene, è disposto a tornarci a settembre. A settembre
mio marito riprenderà quindi a fare il tassista (la scuola dista una
ventina di chilometri). Stiamo cercando una soluzione per evitare questi andirivieni.
Non ce la sentiamo di mandare Ale in bus, il percorso da fare poi a piedi è
abbastanza lungo. Ci è venuta un'idea, non sappiamo ancora se è
realizzabile, ma proveremo. Proveremo a cercare qualcuno, magari un pensionato,
che, dietro compenso naturalmente, vada a prenderlo alla fermata del bus e lo
accompagni a scuola e poi da scuola lo riaccompagni alla fermata. Sarà
possibile trovare questo qualcuno? Speriamo di sì. Altrimenti mio marito
sarà costretto a farsi 80 km al giorno, in fondo come ha sempre fatto
negli ultimi anni. Ma anche lui è stanco.
Non importa a nessuno che sia stanco, però. In febbraio Ale è
stato sottoposto alla visita di controllo per l'accompagnamento. Avevamo
fatto domanda di revisione, visto che la sua situazione è peggiorata.
Ci hanno fatto capire subito che non c'era nulla da fare. Il presidente
della commissione dell'ASL competente non considera queste situazioni
gravi al punto da concedere l'accompagnamento. In sede di commissione
ho posto una sola domanda. Ho chiesto se considerano normale, per esempio, che
un genitore percorra ogni giorno in macchina la strada che mio marito percorre
da anni per Ale. È normale che una famiglia si sobbarchi spese e sacrifici
del genere per un ragazzo di quasi 23 anni? Mi ha risposto la psicologa (o assistente
sociale, non ricordo bene) che fa parte della commissione e che in teoria dovrebbe
essere, per noi, un interlocutore. Mi ha detto che questa è una situazione
voluta da noi. In fondo si può evitare, mandandolo naturalmente all'ANFFAS.
Già, l'ANFFAS! È l'unica cosa che ci hanno sempre
saputo suggerire nella città in cui viviamo. Ce la suggeriscono da quando
è uscito dalle medie! È l'unico modo di collaborare con
la famiglia che le istituzioni del posto sembrano conoscere. Per questo motivo
le evito e certo di fare a meno di loro. E spero di poterne fare a meno sempre.
Di avere la forza necessaria per provvedere da sola, insieme alla mia famiglia,
ad Ale. Una cosa chiedo regolarmente a chi da lassù ci guarda: "Fammi
vivere fino a quando lui ha bisogno di me e lasciami le forze necessarie per
provvedere a lui!" L'idea che veramente mi fa impazzire è
quella di saperlo affidato a delle istituzioni. E mi preoccupa se dovessero
essere i fratelli a doversene occupare. Mi preoccupa perché sicuramente
la vita di chi ha un fratello portatore di handicap è già diversa
da quella di un ragazzo normale, se poi se ne deve occupare diventa sicuramente
un peso!
Ci tengo a precisare che non ho nulla contro l'ANFFAS. Rispetto molto
le persone che ci lavorano. Ma i ghetti non mi sono mai piaciuti. Non mi sono
piaciuti neppure 20 anni fa, quando in Germania, dove l'integrazione dei
portatori di handicap era ancora un sogno, ho lottato per l'integrazione.
Non l'ho raggiunta quando andava in asilo, ma per la scuola sì.
Già allora si faceva 20 km all'andata e 20 al ritorno (in tassì)
per frequentare l'unica scuola elementare che a Colonia accogliesse portatori
di handicap. Molti cercarono di sconsigliarmelo e mi fecero venire molti dubbi.
Ma questo è tutto un altro capitolo.
Così facendo Ale ha imparato molte cose. È persino bilingue. Riesce
a tradurre da una lingua all'altra e non ha dimenticato il tedesco, nonostante
sia in Italia ormai da 10 anni. Quando una parola non la conosce in una lingua,
me la chiede e formula così le sue frasi. Ma a volte si diverte persino
a tradurre nel vero senso della parola, a tradurre per esempio le canzoni che
ascolta così volentieri. Sembra quasi una beffa a quel professore che
lo visitò per primo nel lontano dicembre 1980. Ale aveva appena un mese.
Noi avevamo già un figlio di 4 anni che cresceva bilingue e volevamo
sapere dal professore se potevamo tentare la stessa cosa con Ale, dato che prima
o poi saremmo tornati in Italia e quindi bisognava pur prepararlo. Ci guardò
come se venissimo da un altro pianeta e sentenziò: "Cosa, questo
bambino bilingue! Ma se non si sa neppure se sarà in grado di parlare!".
E meno male che non gli abbiamo dato retta. Che abbiamo incassato e basta. A
proposito, fu proprio quello il momento in cui imparammo ad incassare, a mandare
giù ed a fare poi di testa nostra.
Anna Maria Spada Milanesi