Spicchio di sole
Eccomi di nuovo qui, sono sempre io, la mamma di Andrea, quella
con la testa piena di domande,
quella che ha dipinto un arcobaleno
nel mosaico di Daniela.
Ho sentito il bisogno di riprendere la penna in mano per condividere alcune
mie recenti riflessioni con chi sta vivendo momenti di vita difficili, delicati
come quelli che anch'io ho vissuto. Questa volta però non è facile,
vorrei dire tante cose, e trovare le parole giuste non sarà un gioco.
Una mamma, dopo aver letto alcune testimonianze che le avevo segnalato, mi
ha scritto:
“....sono stata molto colpita dalle testimonianze che ho letto:
sai Edi io non ho ancora raggiunto la serenità necessaria per poter
parlare della storia del mio bambino se non con toni ancora molto cupi e drammatici.
Mi rendo conto che è sbagliato ma credo che tutto faccia parte di un
percorso interiore che ancora non sono riuscita a compiere pienamente....”.
Ecco, anch'io mi sono sentita così per molti anni, avevo dentro
rabbia e amarezza e solo l'amore per la mia famiglia mi ha aiutato a
convivere per tanto tempo con sentimenti tanto opprimenti.
I testi di psicologia recitano che parole sentite in momenti di forte coinvolgimento
emotivo rimangono per molto tempo vivide nella mente. Ricordo quando aspettavo
Andrea e i risultati del triplo test indicarono un rischio superiore alla norma
di avere un bambino con sindrome di Down. Mi venne offerta la possibilità di
fare l'amniocentesi, è gratuita, mi dissero. Io e mio marito ci
precipitammo dal nostro medico di base. Ero disperata, in lacrime, non sapevo
cosa fare. La mia religione mi dettava regole precise, ma quando ci sei dentro è tutto
molto diverso. Prima di entrare chiesi a mio marito: “Cosa facciamo?”.
Mi rispose: ”Non ucciderei mai un bambino Down”. Lui non è credente,
mi insegnò una lezione di vita, mi dette coraggio. La dottoressa Mc
Cullen ci ricevette. Ci ascoltò. Ci dette qualche consiglio medico,
con calma e lucidità. Poi, con molta serenità ci disse: “Ricordatevi
che comunque vada questo non sarà un bambino con la sindrome di Down,
questo sarà il vostro bambino”. Quante volte mi sono risuonate
nella mente le parole della Dott.ssa Mc Cullen. E' proprio così,
un figlio è prima di tutto un figlio, una persona ed è forse
per questo che ci sentiamo profondamente feriti quando capiamo che altri, troppo
spesso, vedono solo la sindrome.
I primi anni di vita con Andrea sono stati abbastanza facili, lo abbiamo trattato
semplicemente come suo fratello Luca, aiutandolo là dove aveva più bisogno
di noi. Non ci siamo mai illusi che Andrea fosse “come tutti gli altri”,
ma abbiamo sempre cercato di dargli le stesse opportunità che hanno
tutti gli altri bambini.
Ma la famiglia ben presto non basta più. Inizia il confronto con il
modo esterno che, aimè, è tutt'altro che un luogo comune.
E così è ben presto arrivato anche per Andrea il momento dell'inserimento
scolastico, forse il primo grande confronto con il mondo. Questo ha coinciso
con il nostro rientro in Italia dopo molti anni di soggiorno all'estero.
Ci sono stati momenti difficili, ci sentivamo come degli stranieri nel nostro
paese, è stato un po' come ricominciare una nuova vita. Abbiamo
dovuto ricominciare con il lavoro, farsi nuovi amici, e soprattutto creare
un nuovo, piccolo, rassicurante universo per i nostri bambini.
E poi la scuola... Nel paese famoso nel mondo per una lunga tradizione
di inclusione scolastica ci siamo ben presto accorti che nulla va dato per
scontato. Sono stati anni difficili, con tanti momenti di scoraggiamento, tante
lacrime versate. Volevamo il meglio per Andrea, per la sua educazione, per
la sua istruzione, per la sua crescita ed eravamo disposti a tutto. Non dimenticherò mai
l'aiuto ricevuto in questi lunghi anni da un caro amico, un pedagogista
con tanta fiducia nelle risorse dei genitori. A quel tempo non lo conoscevo
neppure, era solo un cavo telefonico ad unirci, ma la sua voce altisonante
arrivava benissimo e le sue parole mi tenevano su come i fili per un burattino.
Poi, all'improvviso Andrea ci è venuto incontro. Ha cominciato
ad ottenere grandi successi a scuola, ripagando gli insegnanti e noi famigliari
di tanti anni di duro lavoro. Ha iniziato a fare le sue scelte. Superando le
sue difficoltà di espressione, ci ha fatto capire chiaramente che voleva
fare pattinaggio. E così è stato. Lo fa con molta passione, con
tenacia e determinazione. Poi ha “deciso” quando ormai ci eravamo
tutti rassegnati, di iniziare a masticare. Nel giro di poco tempo è passato
dai frullati alla pizza! Insomma, gratificazioni per tutti. Anch'io ho
cominciato a sentirmi meglio, più serena, più giovane, anche
più bella, con gran sollievo da parte del resto della famiglia. Anche
i miei rapporti con gli altri sono migliorati, perché erano scomparsi
la rabbia, l'amarezza, il disagio.
Mi sembrava di vivere in un sogno. Però c'era ancora una cosa
di cui non ero contenta. Il mio rapporto con una delle insegnanti di Andrea.
Non una qualunque, l'unica che ha seguito la classe sin dalla prima,
una maestra coscienziosa e attenta, severa e scrupolosa. Ma ciò nonostante
in questi anni il nostro rapporto è stato sempre piuttosto “acceso”,
con mal celate divergenze di opinione, scontri, litigi. Ho cercato in tutti
i modi di farmi ascoltare, di farle capire che Andrea impara in modo non convenzionale.
Che non bisognava fermarsi di fronte al primo ostacolo, non ci potevamo permettere
di perdere tempo. Bisognava tentare vie alternative, poi i risultati sarebbero
arrivati. Ma niente da fare, mi rendevo conto che la sola cosa che stava crescendo
fra noi era il disagio. Alla fine ho rinunciato, proprio come avevo fatto con
Andrea quando si rifiutava categoricamente di masticare.
Poi, un giorno ho capito dal suo sguardo (e ormai lo conoscevo bene!) che qualcosa
era cambiato. Ho preso il coraggio a quattro mani (anche otto!) e le ho fatto
leggere quello che avevo scritto sulla scuola. Dovevo condividere con lei le
mie emozioni, pur sapendo che molte delle cose che avevo scritto non le sarebbero
piaciute e che certamente le mie parole non le rendevano il giusto merito per
tutto il buon lavoro che, a suo modo, aveva fatto in questi anni. Dopo qualche
giorno la maestra ha voluto incontrarmi. Ero molto tesa, avevo messo in gioco
il nostro futuro. Mi ha detto: “Mi hai dato delle forti emozioni, ma
ora tocca a te ascoltami”. Ora-tocca-a-te-ascoltarmi, non me lo aveva
mai detto prima. Poi ha aggiunto: “Ora io non sono la maestra di Andrea,
ma una persona che parla ad un'altra persona, non alla mamma di Andrea”.
Finalmente due persone. Mi ha raccontato delle sue angosce, le sue ansie, le
sue preoccupazioni di questi anni. Tutte cose normali per un'insegnante
scrupolosa che si trova davanti una classe non facile e vuole dare il meglio
ai suoi alunni. Mi rimane un po' di rammarico perché non posso
fare a meno di pensare che forse se avesse ascoltato un po' di più noi
genitori, invece che solo colleghi o “esperti nel settore della disabilità” si
sarebbe risparmiata almeno una parte delle sue angosce. Ma non importa più.
Questi anni, per quanto dolorosi e difficili, ci hanno aiutato a crescere e
sono sicura che ci abbiamo arricchito entrambe. Due donne forti convinte di
se stesse e del proprio operato si sono tolte la maschera ed hanno imparato
che non solo nelle favole “quando si vince si perde e quando si perde
si vince”.
Ecco un altro pezzetto per il mosaico di Daniela. Dopo il temporale e dopo
l'arcobaleno ha fatto capolino uno spicchio di sole, un sole luminoso,
vitale, un sole di primavera che mi avvolge in un caldo abbraccio ristoratore.
Edi Cecchini