La parola alle famiglie
Percorsi integrati e progetti di vita
Narrative based medicine
La comunicazione della diagnosi. Un'esperienza positiva
Dicembre 2003
La comunicazione della diagnosi
Chi ha esperienze positive da raccontare sulla comunicazione
della diagnosi?
Chi ha proposte per favorire il diffondersi delle esperienze positive?
L'invito è rivolto anche ai gruppi di mutuo aiuto e ogni altra realtà locale
che voglia mettere a disposizione di tutti la propria esperienza.
Chi ha esperienze negative da raccontare, perché in
futuro non si ripeta più?
Leggete l'esperienza di Enrico Barone, pubblicata su il n. 4 (Anno 3) Settembre-Ottobre
2003 della rivista Un pediatra per amico
Un pediatra per amico Quando i medici usano il fischietto
Enrico Barone
La sera del 25 aprile 1994 un gentile signore dall'aria grave si affacciò alla
soglia della sala parto dell'ospedale Queen's Mother di Glasgow (U.K.) dove
mia moglie ed io stavamo "recuperando" dalle fatiche del travaglio,
presentandosi come il Dott. Thomas Turner. Entrò, si sedette e con voce
pacata ci disse quello che nessun genitore vorrebbe mai sentire: "I think
your wee man has got Down syndrome (Credo proprio che il vostro ometto sia
affetto da sindrome di Down").
Quando ero ancora un ragazzino ad una nostra amica di famiglia nacque una
figlia mongoloide. Sì, avete letto bene, ho scritto proprio mongoloide!
Questo termine orribile, oltre che scientificamente scorretto, che ci fa oggi
rabbrividire descrive compiutamente l'immagine distorta di quella bambina che
si impresse all'epoca nella mia mente. Per anni se qualcuno mi avesse chiesto
quale era la cosa peggiore che potesse succedermi nella vita, avrei risposto: "Avere
un figlio ritardato". Forse ero condizionato da un ambiente familiare
che poneva l'intelligenza (qualunque cosa questo parola rappresenti) al di
sopra di ogni altra qualità umana, o forse ero solo giovane e totalmente
ignaro di cosa significhi affrontare la vita. Oltre vent'anni più tardi
la sorte mi aveva regalato (e lo dico senza ironia) Andrea.
Andrea era nato da pochi minuti, o giorni, o secoli, in quel momento non avrei
saputo dirlo, completamente stordito da una sensazione di black-out totale
attraverso la quale filtravano altre parole che il Dott. Turner pronunciava
da una distanza incredibilmente lontana. Seguì una pausa lunghissima
(o almeno mi parve, non credo di aver mai compreso così bene il concetto
einsteniano di relatività del tempo) al termine della quale ci chiese: "Come
vi sentite?".
No, dico, ma vi rendete conto? Che razza di domanda era? Se io fossi stato
un pediatra sarebbe stata l'ultima cosa che avrei chiesto, soprattutto in modo
così diretto, anche se tutt'altro che brutale. Anzi forse non avrei
nemmeno avuto il coraggio di entrare in quella stanza e parlare a quei genitori.
Ci voleva del fegato, ma soprattutto ci volevano delle notevoli doti umane
(non psicologiche, si badi bene) per riuscire a trasmettere un sentimento di
partecipazione emotiva che non suonasse commiserativo o di compatimento. "Come
vi sentite?" Bhè, non ci crederete, ma era la domanda giusta, quella
che avrebbe contribuito a dare una svolta alla nostra vita futura, forse perché contribuì a
renderci protagonisti della vita di nostro figlio fin dall'inizio.
"I feel positive" rispose mia moglie riportando la luce nel mio
cervello. "That's good" replicò Turner.
Per mia fortuna non posseggo ricette miracolose e non scommetterei manco un
centesimo, visto che le lire sono fuori corso ormai, che quello che ha funzionato
nel nostro caso sia valido in tutte le situazioni familiari. So soltanto che
quelle poche sillabe erano tutto ciò di cui avevo bisogno in quel momento.
La realizzazione che non ero solo, che avremmo lavorato insieme, mia moglie,
io e quel pediatra per dare ad Andrea il futuro che si meritava. A volte si
riescono a stabilire delle cooperazioni, se non proprio delle vere e proprie
alleanze, senza accordi scritti o verbali, basta saper fare bene il proprio
mestiere: di genitore o di medico.
Già, facile a dirsi, ma come si diventa un bravo medico? Non ne ho
la più pallida idea, faccio fatica persino a districarmi nel ruolo di
genitore! Però la strada percorsa insieme al Dott. Turner mi ha lasciato
qualcosa e non posso astenermi dal raccontarlo su queste pagine, nella speranza
che serva come spunto di riflessione e, perché no, di apprendimento
per chi mi legge. Gli assidui frequentatori di questa rubrica si ricorderanno
di Rosanna Blasi, la mamma che sul numero di novembre/dicembre 2002 scriveva: "Uno
degli aspetti… con il quale ho dovuto spesso combattere è una sorta
di generalizzazione che tutti (genetisti, neuropsichiatri infantili, pediatri,
insegnanti) fanno rispetto allo sviluppo della personalità e quindi
dell'identità personale". La buona notizia, cara Rosanna, è che
talvolta la sorte benigna ti fa incontrare qualcuno che non si limita a leggere
o, peggio ancora appiccicare, etichette.
Thomas Turner è un bravo pediatra proprio perché è interessato
ai propri pazienti, non alle loro patologie. Prendete il nostro caso. Noi professionalmente
(entrambi biologi che si occupavano di genetica) qualche conoscenza tecnica
sulla sindrome di Down ce l'avevamo; eravamo pure in grado di leggerci le pubblicazioni
scientifiche a livello specialistico. Per svariate settimane perseguitammo
il poveretto dicendogli: "Ci dia del materiale da leggere sulla sindrome di
Down, vogliamo saperne di più". E lui nicchiava. All'epoca, fummo abbastanza
scontenti di questo atteggiamento, perché lo interpretammo più come
una forma di noncuranza, anche se, conoscendo la persona, sapevamo che non
poteva essere disattenzione nei nostri confronti. Realizzammo solo più tardi
che, in realtà, il suo atteggiamento era completamente diverso, il suo
messaggio voleva essere: "Non dovete diventare degli esperti della sindrome,
dovete imparare a conoscere Andrea". Quella riluttanza a fornirci le informazioni
scientifiche che, forse un po' ingenuamente, cercavamo è stata estremamente
positiva perché ci ha aiutato a diventare non degli esperti di sindrome
di Down, nè tantomeno di disabilità in senso lato, ma, molto
più proficuamente, degli esperti di nostro figlio.
E come tali fummo sempre considerati nei mesi e negli anni successivi, con
rispetto ed umiltà, due termini che temo non vadano per la maggiore,
forse perché non costituiscono materia d'esame all'Università.
Il Dott. Turner, come avrete ormai intuito, era uomo di poche parole, ma sapeva
ascoltare. Di più, sapeva valutare il valore della nostra esperienza
maturata vivendo quotidianamente a contatto con Andrea e metterla a frutto
proprio perché la equiparava e la integrava alle sue conoscenze scientifiche.
Avevamo un pediatra che rappresentava sì un punto di riferimento, ma
senza interferire, senza porsi come intermediario tra noi e nostro figlio.
Non ci aveva chiesto di firmare una cambiale in bianco, una delega totale ed
incondizionata a lui, allo specialista. Anzi, ci aveva fatto intuire fin dall'inizio
che noi eravamo i genitori ed i primi responsabili della crescita e dell'educazione
di Andrea, lui si limitava ad essere un consulente tecnico che interveniva
se, e soltanto se, ce ne fosse stato il bisogno e la richiesta da parte nostra.
Ci ha aiutato a crescere, senza bisogno di farci un corso di perfezionamento
sulla genitorialità di cui non avevamo nessun bisogno perché stavamo
imparando a fare i genitori con Andrea (come avevamo già fatto con suo
fratello Luca) e ce la cavavamo benissimo da soli. Il suo ruolo era tanto più importante,
quanto meno intrusivo.
Ci chiedevamo come si diventa un bravo medico. Forse bisognerebbe applicare
lo stesso criterio in uso per gli arbitri di calcio, il migliore è quello
che quando dirige si fa notare meno, quello di cui arrivati alla fine della
partita ci si chiede il nome.
Che speranze abbiamo che questo sogno si realizzi? Forse più di quante
crediate. Il fatto stesso che stia trascorrendo questo afoso pomeriggio scrivendo
la mia testimonianza per UPPA (la prossima volta vado al mare, giuro!) mi induce
all'ottimismo, ma c'è dell'altro. Leggete queste righe: "Forse
bisogna condividere un approccio culturale diverso, nella formazione degli
operatori... Forse possiamo dimostrare che l'ascolto e la condivisione delle
responsabilità con la famiglia, è uno strumento necessario, non
solo auspicabile… Una capacità di giudizio e analisi (quella dei genitori),
per il loro singolo caso, molto più discriminante della mia, e lungimirante,
e più umile. Ciascuno di loro, per il caso specifico del loro bambino,
era un vero esperto, fonte di conoscenza per ogni operatore. Se solo fossero
stati ascoltati meglio, con rispetto delle loro intuizioni e competenze affettive,
nel loro percorso, si sarebbe risparmiato un pò di dolore ed anche risorse
economiche".
Pensate che provengano da qualche pianeta lontano? Vi sbagliate, le ha scritte
una pediatra di Roma dopo una giornata trascorsa in compagnia di un gruppo
di genitori agguerriti che hanno deciso di unirsi (vedi Box) per offrire la
loro collaborazione agli operatori professionali che interagiscono con i loro
figli diversamente abili. Io mi assumo personalmente l'impegno di far sì che
questa voce non rimanga da sola a gridare nel deserto. Lo farò volentieri
perchè credo sia la maniera migliore per ringraziare un certo Thomas
Turner che ha dato una mano alla sorte nel regalarmi Andrea.
ENRICO BARONE
Vice-presidente dell'AIPD ONLUS (Associazione Italiana Persone Down)
Coordinatore del partenariato europeo di apprendimento "La Pedagogia
dei Genitori"
La "Pedagogia dei Genitori" intende sottolineare la dignità dell'azione
pedagogica dei genitori come esperti educativi. Si vuole raggiungere tale obiettivo
mediante:
il coinvolgimento dei genitori e la loro valorizzazione nell'elaborazione
dei progetti di vita ed educativi dei figli, attraverso l'acquisizione della
consapevolezza delle proprie competenze educative, sia come mutuo aiuto che
nella formazione dei professionisti;
la promozione del protagonismo dei genitori nella formazione
del personale docente, non docente e socio-sanitario;
il riconoscimento della validità scientifica delle competenze
pedagogiche dei genitori da parte di tecnici ed operatori dei settori socio-sanitario
e dell'educazione.
Dal 2001 il progetto ha assunto dimensione europea come partenariato di apprendimento
nell'ambito dei programma comunitario per l'educazione continuativa degli adulti
Socrates/Grundtvig 2. Prendono parte al progetto il "Comitato per l'integrazione
scolastica degli handicappati" di Torino, le Sezioni AIPD di Pisa-Livorno
e Brindisi, l'Associazione "Integrazione" di Villaverla (VI), l'organizzazione "Children
in Scotland" di Edinburgo (UK) e la Sezione Midi-Pyrenées del GIPH
di Tolosa (F).