Io e mia sorella
Intervista a Federico Girelli pubblicata sul settimanale "Grazia", n. 42 del 21/10/2003

Storia di Federico e del suo intenso, struggente rapporto con Maria Claudia, affetta da Sindrome di Down. Storia di complicità, fatica, vecchi giochi e nuovi modi per restare insieme. Perchè, dice lui, "fratelli” vuol dire "per tutta la vita".
di Stefania Rossotti

Pagina Grazia
Foto di Stefano De Luigi/Contrasto

In piedi, le braccia allargate come in una danza: solitaria, silenziosa. Maria Claudia si culla in un ritmo che solo lei riesce a sentire: a destra, a sinistra, lentamente. Muove le dita nell'aria come se stesse disegnando qualcosa, qualcosa di trasparente. Non alza quasi mai la testa. Se non per lanciare sguardi brevissimi, arguti. Che cosa ha visto? Che cosa ha capito che noi non riusciamo a capire? Maria Claudia è affetta dalla Sindrome di Down. Ha 26 anni, ed è tanto minuta da sembrare poco più che bambina. Federico ha 31 anni, una bella faccia, una carriera universitaria da tempo avviata, una fidanzata dai capelli lunghi e scuri. Gli capita di sorridere spesso mentre parla: con la concitazione di un ragazzo e il tratto elegante di un vecchio gentiluomo. Maria Claudia e Federico sono fratelli. E questo è tutto. Perché, come dice Federico, non c'è rapporto più duraturo di questo: inizia che non sei ancora nato e finisce quando finisci tu. Oggi sono a casa, qui a Roma, per stare un po' con noi. «Ieri abbiamo sfogliato "Grazia”, volevo che Claudia conoscesse il vostro giornale», dice Federico. «Volevo vedere se le piaceva». E dunque? «Va bene, l'ha guardato e poi è tornata a riprenderselo. Segno che l'ha incuriosita. Claudia sa perfettamente che cosa le piace e che cosa non le va». Claudia sa, ma non parla. «Diceva alcune parole da piccola e poi le ha perdute», spiega Federico, «Ricordo che io e i miei fratelli scrivevamo lunghe lettere ai nonni: un accurato aggiornamento sulle nuove parole, su tutte le conquiste di Claudia». I fratelli (più grandi) sono Raffaella e Giovanni che oggi vivono altrove. «È stata Raffaella a spiegarmi quel che aveva Claudia. Quando è nata avevo cinque anni: non capivo che cosa fosse successo. Vedevo mio padre nervoso, mia madre stravolta. Sapevo che Claudia era malata di cuore, ma che con una operazione sarebbe guarita». E allora? Qual era il problema? «Il problema si chiamava, genericamente, ritardo mentale. Un eufemismo che io, comunque, non riuscivo a capire. E allora Raffaella (dieci anni o giù di lì) mi ha spiegato. Mi ha detto: "Hai presente l'Archimede Pitagorico dei fumetti? Ogni volta che ha un'idea... pac, gli si accende una lampadina sulla testa. Ecco, a Claudia, quella lampadina, si accende molto, molto dopo”. Dunque questo era il ritardo mentale...Meraviglie dell'alleanza tra fratelli. Prodigi di una solidarietà fatta di paure condivise, confusioni dipanate insieme, spaventi sedati con «spiegazioni logiche» trovate nei fumetti. La storia di Federico è fatta di mille di questi ricordi, momenti in cui, insieme ai fratelli, ha diviso il dolore, la fatica (e anche la responsabilità) di aiutare Maria Claudia. «Ricordo interi pomeriggi passati a sollevare cartelli con sopra grandi disegni colorati. Claudia doveva imparare ad associare gli oggetti alle parole, che noi scandivamo ad alta voce una alla volta. Poi», aggiunge ridendo, «c'era da fare il "percorso di guerra”». Che roba è? «Claudia doveva imparare a muovere in sincronia il braccio destro con la gamba sinistra (e viceversa). Per farlo doveva strisciare lungo il corridoio: pancia a terra, come un marine delle truppe d'assalto. E allora giocavamo a farlo tutti insieme. Raffaella dice: uno, due, tre, pronti, via... E si partiva all'attacco del nostro nemico immaginario». Il «percorso di guerra» è un complicato dedalo di stanze e corridoi di questa grande casa. Per raggiungere Claudia, che nel frattempo si è rifugiata in camera sua, davvero ci si perde. È stanca Claudia? Non vuole più vederci? «No, no per niente, oggi è di ottimo umore, ma qualche volta le piace restare da sola». Gli umori di Claudia sono al centro dell'attenzione di suo fratello: lui riesce a sentirli e a decodificarli. Adesso, per esempio: è difficile dire da che cosa abbia capito che lei è contenta della nostra visita. Federico domanda e poi dolcemente interpreta le immobili risposte di sua sorella. C'è qualcosa di simbiotico a unirli, qualcosa che ricorda da molto vicino il rapporto di una madre con il figlio neonato: lei sa quello che lui non sa dire. Come fa? Domanda ridicola. E profana. Claudia torna in salotto a trovarci, si siede accanto al fratello, ma non lo sfiora. «A volte avrei voglia di accucciarmi accanto a lei. Per respirare un po' del suo silenzio, della sua calma. Lei ci sta, ma dopo un po' mi caccia via», racconta Federico ridendo. «Poi, quando fa comodo a lei... C'è stato un periodo (un brutto periodo) in cui Claudia non riusciva a dormire. La notte vagava per la casa sveglia come se fosse giorno pieno. Per farla addormentare le cedevo un po' del mio letto. Dormivo schiacciato contro il muro, mentre lei, finalmente rilassata, invadeva tutto lo spazio possibile. Il giorno dopo mi svegliavo tutto accartocciato, e mi mettevo a studiare. Era un periodo strano, per certi versi faticoso. Di giorno, quando tutti uscivano, nel silenzio della casa c'era solo Claudia con me. Sentivo la sua presenza nell'altra stanza e facevo fatica a concentrarmi. Dovevo dare un esame, ma dovevo anche occuparmi di lei. Dovevo isolarmi, ma non potevo lasciarla sola. L'ordine delle priorità mi si capovolgeva continuamente nella testa. E si placava solo con qualche compromesso: un po' di studio, poi si fa la torta insieme... Ancora qualche pagina, poi si va a comprare il gelato, oppure in giardino a lavare il motorino, o al parco a passeggiare...». C'è molta armonia e un certo affanno nelle parole di Federico. C'è preoccupazione, ma non per il futuro («Di Maria Claudia ci occuperemo noi. Va bene così: nessuno lo dice, ma un disabile è destinato a passare la maggior parte della sua vita con i fratelli, a loro spetta il compito di continuare quando i genitori se ne vanno»). A preoccupare Federico sembra più il presente, con le sue malinconie. «Claudia sa, capisce che qualcosa non va in lei. Sa di non poter fare quello che altri fanno senza sforzo, sa di non poter arrivare dove altri arrivano. E a volte, questa consapevolezza la riempie di rabbia o di tristezza. Altre volte no. C'è gratitudine, in lei. Quando, la domenica mattina, l'aiuto a fare la doccia, vedo gioia nei suoi occhi. Quando la rivesto (pulita, profumata) mi accorgo che mi guarda come se le avessi fatto un regalo, aiutandola in qualcosa che da sola non sa fare. Sono momenti belli, in cui riusciamo a ‘dirci' tante cose». Federico e i suoi fratelli sono cresciuti sapendo che dovevano occuparsi di Maria Claudia. «I genitori di bambini disabili hanno, di solito, due reazioni opposte. C'è chi tende a "difendere” gli altri figli, sottraendo il fratellino malato al loro sguardo e alle loro preoccupazioni. E c'è chi, invece, sceglie la via della responsabilizzazione. A volte persino eccessiva, fin troppo pesante... E così ti capita un pomeriggio di pensare: "Ho proprio voglia di fare un giretto con Claudia”, poi senti tua madre che ti dice: "Mi raccomando: occupati di tua sorella”. E allora ti passa la voglia, ti viene da scappare via». Federico ha condiviso il suo dolore di «fratello» con un gruppo di amici. Hanno cominciato a incontrarsi cinque anni fa, ragazzi e ragazze con una cosa in comune: un fratello affetto da Sindrome di Down. Da lì è nato un gruppo di auto-aiuto (vedi box). «Un giorno (un giorno che non dimenticherò) uno di noi scherzando ha detto: "Ho un Down” e io, per la prima volta, sono riuscito a dirmi: ce l'ho anch'io, il Down. Anch'io sono giù. Anch'io ho un problema. Non solo mia sorella, non solo mia madre. Anche per me tutto questo è faticoso. So di essere fortunato. Per esempio nessuno mi ha mai discriminato per il fatto di avere una sorella malata (a molti capita, sembra impossibile, ma è così). E poi sono sempre riuscito a vivere il mio rapporto con Claudia con una certa serenità: mi è sempre sembrato normale occuparmi di lei. Eppure ho dovuto aspettare molto tempo (e incontrare altri "fratelli” come me) per riuscire a dirmi anche la mia sofferenza». È quasi sera, Maria Claudia è, di nuovo, tornata dal suo piccolo esilio nella sua stanza. In piedi davanti a noi, con la sua lenta danza, sta cercando di dirci qualcosa. Federico le chiede: «Sei stanca? Vuoi che usciamo a comprare un gelato?». Lei lo trapassa con il suo sguardo acuto. Federico ha capito il messaggio: «Hai ragione Claudia. Niente gelato: non sei più una bambina...».
Stefania Rossotti

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